di Stefania Maurizi
La tragedia di Lampedusa ha un mandante: è un generale eritreo che gestisce il traffico di uomini e donne che scappano dal dittatore Isaias Afewerki. Torture, ricatti e rapimenti che anche l’Italia ha cercato di nascondere
Ogni volta sembrano disgrazie ineluttabili. Senza mandanti e colpevoli. Colpa della violenza che devasta l’Africa. Colpa delle guerre, della fame, della disperazione, si ripete come un mantra. Tutti colpevoli e nessun colpevole. E invece la tragedia di Lampedusa ha un mandante. Si chiama Teklai Kifle “Manjus”, ed è il generale eritreo che, secondo gli ispettori Onu, è a capo delle operazioni di traffico degli esseri umani che scappano dall’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki; e che spesso trovano la morte in mare, come è successo a Lampedusa.
A rivelare il ruolo cruciale del generale Manjus è il rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite che monitorano le sanzioni sull’Eritrea e la Somalia, un report che “l’Espresso” ha pubblicato in esclusiva a luglio , quando fonti dell’Onu hanno raccontato a l’Espresso come le pressioni di Italia, Russia e Cina, avessero rischiato di far slittare l’approvazione del documento al Palazzo di Vetro.
Il generale Manjus è stato identificato dagli ispettori delle Nazioni Unite fin dal 2011 e il suo ruolo è stato descritto in un report anche nel 2012 in cui si ricostruiva così la tratta degli esseri umani: «Ha inizio dall’Eritrea dell’ovest, sotto la guida del generale Manjus» ed è legata al traffico di armi, che vengono trasportate verso la frontiera e consegnate alle reti di trafficanti dei Rashaida, un’etnia che vive tra Eritrea e Sudan. «Dal Sudan», scrivevano nel 2012 gli ispettori: «i trafficanti Rashaida vendono i posti nei camion ai migranti eritrei per circa 3mila dollari. È noto anche il loro ruolo nei rapimenti dei rifugiati dai campi che si trovano nell’est del Sudan. I camion vengono caricati con le armi e le munizioni, mentre i passeggeri e le loro cose prendono posto sopra il carico, in modo da nasconderlo».
Per transitare verso l’Egitto, i trafficanti Rashaida consegnano i migranti ai trafficanti beduini, che invece di farli arrivare a destinazione, spesso li imprigionano e chiedono riscatti esorbitanti ai familiari per rilasciarli: di norma tra i 30mila e i 50mila dollari. «Se il riscatto non viene pagato, gli ostaggi possono finire torturati brutalmente o ammazzati: alcuni trafficanti beduini hanno detto ai loro ostaggi che avrebbero rimosso e venduto i loro organi vitali, nel caso in cui il riscatto non fosse stato pagato». Solo dal traffico delle munizioni, il generale Manjus e la sua rete ricaverebbero 3,6 milioni di dollari all’anno, a cui vanno ad aggiungersi i proventi del traffico di esseri umani.
Nel luglio scorso, con il loro nuovo rapporto , gli ispettori sono tornati ad occuparsi del generale Manjus, definito come «il coordinatore chiave del traffico di esseri umani dall’Eritrea». Gli investigatori delle Nazioni Unite rivelano anche di essere riusciti «a identificare un conto in una banca svizzera, conto usato per raccogliere i riscatti estorti alle famiglie dei migranti».
Nel report si rivela anche che il team di ispettori è riuscito a venire in possesso delle ricevute di money transfer che documentano i pagamenti legati alle estorsioni negli anni 2011 e 2012: «Per ragioni di sicurezza questi documenti non sono stati pubblicati nell’appendice del rapporto Onu, ma sono conservate in un archivio delle Nazioni Unite» in modo da evitare rappresaglie contro chi ha fornito copia di questi documenti.
Gli ispettori rivelano anche il nome di un operativo dell’intelligence eritrea: Kassate Ta’ame Akolom, «che guida le operazioni di traffico di esseri umani e ostaggi in Eritrea, nord Etiopia ed est Sudan». Stando a quanto avrebbe confessato lui stesso alla polizia etiope, Ta’ame sarebbe un uomo del generale Manjus. Nell’ultima pagina del rapporto, gli ispettori ne pubblicano una fotografia.
Anche i migranti eritrei che riescono a salvarsi, a raggiungere e stabilirsi in paesi come l’Italia, la Germania, gli Usa o l’Inghilterra, continuano a subire le estorsioni del regime. Il report rivela che sono costretti a pagare una “tassa” per finanziare le forze militari della dittatura di Afewerki. «Agli stati membri delle Nazioni Unite era stato chiesto di riferire sulle misure che avevano preso [contro queste estorsioni]», una richiesta caduta nel vuoto, tanto che i cittadini eritrei che hanno «denunciato formalmente alle forze di polizia italiane e svedesi – paesi in cui i consolati eritrei applicano queste misure coercitive- riferiscono che spesso sono mandati via dalla polizia, che dice loro di non potere fare nulla».