Sfruttamento e agromafie: spunta anche la caporala
Una donna avrebbe messo in piedi nel Cesenate una struttura con reclutamenti per 10-12 ore al giorno a 30-35 euro
CESENA. «Abbiamo una quota di economia legale che fa profitto grazie al lavoro illegale». Così ieri Roberto Iovino, della Flai Cgil nazionale, ha sintetizzato il fenomeno del caporalato. Lo ha fatto introducendo il quarto Rapporto su agromafie e caporalato, curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, presentato nella sede cesenate della Cgil.
Non solo “mele marce”
«Il lavoro irregolare – ha detto Iovino – incide per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo italiano. Il business del caporalato vale 4,8 miliardi di euro, di cui 1,8 miliardi di evasione contributiva. È evidente che tratta di un problema che riguarda un intero Stato e non solo un settore economico e lavorativo. Dobbiamo uscire dal falso mito che si tratti di qualche “mela marcia”. I dati raccolti provano che c’è un sistema consolidato».
L’atteggiamento poco collaborativo e di pregiudizio nei confronti della nuova legge sul caporalato da parte delle associazioni di categoria datoriali, secondo Iovino, è stato superato nei fatti: «La Legge 199 ha dimostrato di tutelare i lavoratori, ma anche gli imprenditori onesti, che finora hanno subito la concorrenza sleale di chi si affidava ai caporali».
Lo studio
Quello presentato – ha sottolineato Francesco Carchedi, dell’Università La Sapienza – è uno studio «ha tutte le carte in regola sotto il profilo dell’attendibilità scientifica». Il professore nel suo intervento si è soffermato in particolare sulla figura del caporale, «che non è sempre straniero, come qualcuno vorrebbe far credere». Ci sono reclutatori e capi-squadra, chi gestisce piccoli gruppi, chi invece coordina centinaia di braccia aggregando più squadre. Più si cresce di numero, più l’organizzazione da orizzontale si fa piramidale, con un vertice dove sempre più spesso è facile trovare criminalità organizzata anche di stampo mafioso. Nel capitolo dell’osservatorio dedicato all’Emilia-Romagna ampio spazio è dedicato alla realtà di Forlì-Cesena, dove non mancano esempi di condizioni di lavoro «para-schiavistiche». I settori della raccolta della frutta e della zootecnia sono i più colpiti dal fenomeno, che però tocca anche il badantaggio e il turismo della riviera.