La Repubblica

di RORY CAPPELLI

Le ragazze venivano drogate, picchiate, violentate o usate come merce di scambio. La I Corte d’assise di Roma ha inflitto 16 anni di reclusione a Valerica Draguti, 6 anni a Marian Tapliga e Constantin Viorel Mita, 5 anni a Marian Ovidiu Mita

 

Le drogavano, le caricavano di peso in macchina, le portavano in Italia pagando i funzionari di frontiera, le chiudevano in appartamenti, le violentavano, le picchiavano brutalmente, a volte le usavano come merce per pagare l’affitto, altre volte le rivendevano facendole sparire in quella specie di buco nero in cui ogni anno scompaiono centinaia di donne. Oppure, controllandone ogni mossa attraverso complici prostitute e continue telefonate sui cellulari, le costringevano a vendersi per strada. Un giro particolarmente redditizio: loro, le “ragazze” erano ricercatissime dai clienti che pretendevano rapporti senza protezione e che le volevano sopra ogni altra cosa per la loro età. Poco più che bambine, 14 o 15 anni.
E adesso la I Corte d’assise di Roma, presieduta da Anna Argento, ha inflitto 16 anni di reclusione a Valerica Draguti, 6 anni ciascuno a Marian Tapliga e Constantin Viorel Mita, e 5 anni a Marian Ovidiu Mita, accogliendo la tesi della procura che li accusava, a seconda delle posizioni, di tratta, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e violenza sessuale.
La storia risale al maggio del 2010. I carabinieri fermano una ragazza: non parla italiano ed è terrorizzata. Dichiara di avere 20 anni, di aver liberamente scelto di battere, di voler soltanto essere lasciata in pace. Piano piano, con l’aiuto di psicologhe e assistenti sociali, il quadro che si delinea lascia però gli inquirenti senza parole: partono le indagini e dopo un paio di mesi, in due distinte operazioni, scattano

le manette ai polsi di 7 persone per tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, induzione alla prostituzione minorile e violenza sessuale.
Tutti parte di un’organizzazione che faceva arrivare ragazze nel Lazio dalla Romania o drogandole o con l’inganno: la promessa di un lavoro sicuro e onesto, o addirittura l’ impegno al matrimonio, a “metter su famiglia”. La realtà era però ben diversa: a furia di botte e violenza venivano costrette alla prostituzione dopo averle ridotte in schiavitù. Il processo era una tranche di una maxi-inchiesta coordinata integralmente dal pm Roberto Staffa, il magistrato arrestato a fine gennaio con le accuse di concussione, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio.
Draguti è stato condannato anche a risarcire in via equitativa con 150mila euro una parte offesa patrocinata dall’avvocato Teresa Manente, e con 100mila euro una parte offesa patrocinata dall’avvocato Maria Cristina Cerrato, entrambe legali del Centro Antitratta. Entrambe le legali hanno espresso “soddisfazione” per la sentenza. “Quasi storica” ha detto Cerrato “perché ormai la riduzione in schiavitù è difficilissima da provare e da applicare. E poi perché riconosce la gravità estrema dei reati che violano gravemente i diritti fondamentali di donne e bambine. Ancor più grave se si pensa che si tratta nel caso specifico di persone trattate come oggetto che addirittura nelle intercettazioni telefoniche venivano chiamate “i bagagli”.

 

 

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