Succede in Tunisia, dove quasi il 10 per cento dei minori tra i 5 e i 17 anni lavora anche se la legge lo impedirebbe. E mentre i maschi vengono impiegati nel commercio e nell’agricoltura, le ragazze vengono sfruttate dalle famiglie benestanti
Erano le 16 più o meno. Una Audi A6 gira attorno alla grigia rotonda della piazza principale di Fernana. La città di 5 mila abitanti, nel nord-ovest del paese, è considerata la capitale delle bimbe domestiche. La macchina si affianca a uno degli alberi che fa ombra sulle terrazze che si riempiono appena cala il caldo soffocante di questo mese di luglio. Whalid Ghazouani, trentenne, vede tutta la scena dalla sua postazione. «Qualche minuto dopo arrivano due uomini accompagnati da due bambine, parlano, contrattano, scambiano soldi e le due bimbe salgono sull’Audi», commenta il trentenne.
Le due bambine hanno 10 e 14 anni, vendute dal loro padre per lavorare come domestiche nelle famiglie di un dirigente di Tunisi. Appena capisce che è stato testimone di una vendita di bambine, Whalid Ghazouani si alza per parlare con i due uomini e capire chi sono prima di denunciarli alla polizia. «Non volevano mandare nessuno sul luogo dell’accaduto, non volevano neanche il numero della targa che siamo riusciti a scrivere», ricorda. Ci vorranno più di undici ore e l’intervento di un giornalista locale che ha dovuto informare il governatore regionale sulla situazione per recuperare le due bimbe.
A solo 160 chilometri dalla capitale, Jenduba, capoluogo del governatorato dello stesso nome, svela un altro volto della Tunisia: povero e marginalizzato. Più avanti ancora, quando si lasciano le strade asfaltate per salire sui fianchi delle montagne verso il confine con l’Algeria, solo qualche villaggio resiste ancora alla desolazione. La zona ha una brutta reputazione, quella di essere il rifugio di trafficanti di benzina e di gruppi terroristi. Dopo un’ora di mulattiera percorsa solo da asini, si arriva ad Ouled Khmissa.
Una casa di cemento dipinta di bianco accoglie delle donne che raccontano le loro storie. Come tutte le ragazze del villaggio, Hela K., 18 anni, ha rinunciato alle scuole medie : «La strada è brutta, nessun mezzo arriva fino a qua». Camminava due ore all’andata, due ore al ritorno. Quattro ore a giorno, in cui i genitori temono che le loro figlie siano aggredite lungo le strade deserte. «Io invece sono andata a lavorare a Tunisi per due anni e mezzo», bisbiglia Neila, 19 anni. Sono sette anni che ha lasciato la scuola e subito dopo ha iniziato a lavorare. Dice di aver badato i bambini della famiglia e di essere stata trattata bene al contrario di altre ragazze: «Ce ne sono che vengono picchiate, maltrattate. Spesso i padroni cercano bimbe molto giovani che non sanno nemmeno pulire per terra e le insegnano a farlo prendendole a legnate».
«Io ho smesso perché mi sentivo sempre sola e triste», racconta Neila prima di essere interrotta da un rumore metallico che fa calare il silenzio. La porta sbatte, un adolescente ci urla di andarcene, tira le sedie a terra. È il fratello di una delle ragazze, il capofamiglia da quando è morto il padre. Ha deciso che nessuno doveva parlare a degli stranieri. Cinque minuti dopo, altri uomini ci raggiungono e ci suggeriscono di lasciare il posto.