ZITA DAZZI
SUOR Claudia Biondi, da 20 anni lei è responsabile dell’ area “tratta e prostituzione” della Caritas Ambrosiana, che fa parte della rete nazionale di enti contro lo sfruttamento delle donne sulle strade: non si parla più di ordinanze per arginare il fenomeno. L’ emergenza è finita? «Tutt’ altro. Oggi la prostituzione è un’ emergenza sempre più grave: in Lombardia abbiamo 4-5mila donne sulla strada ma le istituzioni fanno finta di non saperlo e hanno ridotto il budget destinato al contrasto del racket». Come si può affrontare il problema? «Non serve trattare la prostituzione come una questione di ordine pubblico e sguinzagliare in giro le forze dell’ ordine a multare le donne. Ma è anche sbagliato tentare di ridurre la questione a un’ ipotetica libertà di scelta da parte delle donne sulla vendita del proprio corpo». Cosa pensa dell’ ipotesi di un ritorno alle “case chiuse”? «Quella sarebbe la soluzione peggiore, utile solo a rendere invisibile lo “scandalo” nel buio dei bordelli, dove le donne, private della loro dignità, continuerebbero ad essere violentate e trattate come merce». E allora cosa si può fare? «Noi e tantissimi altri enti, laici e non, da vent’ anni giriamo sulle strade per incontrare le ragazze e informarle sulla possibilità di sottrarsi al racket e alla violenza che subiscono». Riuscite a convincerle? «È un lavoro lungo e delicato, ma abbiamo messo in salvo migliaia di donne negli anni, lavorando in rete sull’ intero territorio nazionale e facendo lavoro di squadra. Magari una prostituta con cui noi abbiamo parlato tante volte qui a Milano, si convince ad abbandonare il giro quando arriva a Napoli, o viceversa». Quando una donna vuole uscire dal giro che cosa fate? «Dopo i colloqui che facciamo in strada, proponiamo di venirci a trovare nelle strutture di pronto intervento nelle quali si può restare circa un mese. Qui c’ è personale specializzato che segue le ragazze da vicino e verifica l’ effettiva disponibilità a seguire un percorso di “autonomia” per sfuggire al racket». E poi? «Ci sono comunità d’ accoglienza protette, dove le donne “spariscono” dalla vista dei loro sfruttatori: qui si fa un programma di reinserimento sociale per sei-sette mesi che prevede formazione professionale, corsi di lingua, lavoro e poi il ritorno al paese d’ origine o in appartamenti presi in affitto».