di CHIARA SPAGNOLO
“Sappiamo che sono potenti ma non intoccabili e che in Italia la giustizia esiste”. I migranti a Lecce per il processo contro lo sfruttamento nelle campagne di Nardò a carico di sette imprenditori e dei loro caporali
“La mafia è qui, nei campi di angurie e di pomodori, dove ci hanno fatto lavorare senza pagarci, e anche in quell’aula di Tribunale dove un mese fa è iniziato il processo, e padroni e caporali ci stavano vicino e ci guardavano male per spaventarci”. A distanza di settimane è ancora intimorito Moncef, tunisino 31enne, che fra qualche mese sarà chiamato a testimoniare contro gli uomini che lo hanno sfruttato. Oggi non sarà a Lecce, dove nell’aula bunker del carcere riprenderà il processo a carico di sette imprenditori salentini e nove complici africani, accusati di avere sfruttato decine di braccianti nei campi agricoli di Nardò (FOTO). Il viaggio da Ragusa (dove abita) al Salento è troppo costoso. Lo ha già affrontato il 31 gennaio: dieci ore in treno per arrivare in tempo nell’aula della Corte d’assise, prima che iniziasse il processo, per chiedere di costituirsi parte civile.
Quattro lavoratori lo avevano già fatto nel corso dell’udienza preliminare, molti altri non avevano avuto il coraggio di farlo. Moncef aveva scelto di restare fuori dalla vicenda giudiziaria, di vivere lontano dal Salento,
di provare a dimenticare l’inferno vissuto a Nardò ma poi ha capito che anche la sua parola poteva servire a far condannare gli sfruttatori e che, solo all’esito di un procedimento giudiziario, avrebbe potuto avere ciò che gli spetta per aver lavorato come raccoglitore nei campi. Soldi, infatti, il giovane non ne ha visti mai: “Neanche un centesimo”, così come uno straccio di contratto: “non ho mai firmato alcun foglio che attestasse per chi lavoravo, credo di aver svolto l’attività per l’azienda di Pantaleo Latino ma, quando io e altri compagni abbiamo provato a parlare con lui ci ha sempre detto di rivolgerci al nostro capo Bilel”.
Dal racconto di Mosef emerge la centralità della figura del caporale nel “sistema-Nardò“, deputata a reclutare la manodopera straniera (tramite contatti con reclutatori presenti in Sicilia, Campania e Calabria), prendendo accordi con i braccianti in merito alle paghe e agli orari di lavoro. Mosef nell’estate 2011 è arrivato in Salento dalla Sicilia e durante la sua permanenza, ha sempre fatto riferimento a Belil, “che però stava sotto Sabr”, il cosiddetto “capo dei negri”, che a sua volta rispondeva agli imprenditori.
Nella piramide ricostruita dal tunisino sta l’essenza del reato di caporalato che il pm Elsa Valeria Mignone ha contestato anche ai produttori neretini, ritenendo che i datori di lavoro fossero consapevoli e complici delle condizioni di sfruttamento imposte dai caporali alle rispettive “squadre”. “Io dormivo alla masseria Boncuri – racconta Mosef – ogni mattina all’alba ci venivano a prendere con un grande furgone bianco su cui salivano una trentina di immigrati e ci portavano nei campi di angurie, da dove tornavamo a sera. Il caporale ci chiedeva soldi per il trasporto, per l’acqua, per il panino, a chi come me non li aveva in contanti li scalava dalla paga. Ma io, alla fine, la paga non l’ho vista. Neanche un centesimo, non ho mai preso denaro e la sera riuscivo a mangiare qualcosa solo grazie a qualche amico che cucinava alla masseria Boncuri. Per fortuna, quando ho capito come stavano le cose sono riuscito a farmi restituire i documenti da Belil e sono tornato in Sicilia”.
In un altro angolo d’Italia, dove oggi Mosef vive e lavora. In tutt’altra situazione. “A Ragusa raccolgo zucchine, da sei anni sono impiegato come stagionale per la stessa ditta, ho un regolare contratto, mi pagano i contributi e le giornate di disoccupazione. Guadagno 47 euro al giorno per sette ore di lavoro, lo stipendio arriva regolare il 10 di ogni mese, in tutto circa 1.100 euro versati direttamente sul conto corrente aperto in una banca italiana, che mi consentono di pagare l’affitto di una casa dignitosa in cui vivo con la mia fidanzata”. “In estate non lavoro perché in Sicilia la raccolta è ferma”, aggiunge, precisando che a tornare in Salento non ci pensa proprio: “Altri due mesi di stipendio mi farebbero comodo ma non voglio rischiare di vivere di nuovo quello che ho patito a Nardò, infatti quest’estate ho preferito andare in Tunisia a trovare la mia famiglia”. A Lecce ormai Mosef ha intenzione di mettere piede solo per partecipare al processo, cosciente di quanto sarà difficile sedersi sul banco dei testimoni e ripetere le accuse davanti agli occhi dei caporali e degli imprenditori che lo hanno sfruttato. La prima udienza l’ha trascorsa vicino ai suoi compagni, addossato al muro, con Sabr da un lato e i fratelli Latino dall’altro.
Dell’aspetto giudiziario della giornata ha capito poco ma sa che la parte più difficile deve ancora arrivare e che, tra qualche settimana, sarà chiamato a parlare davanti alla Corte d’assise. “Non mi farò spaventare”, assicura Mosef. Yvan Sagnet, il leader della rivolta pacifica del 2011 che ha già annunciato che presenzierà a tutte le udienze, gli fa eco: “Ci saremo tutti, pronti a dire quello che abbiamo vissuto. Ogni giorno tentano di intimidirci ma, dopo averle viste sul banco degli imputati, sappiamo che queste persone sono potenti ma non intoccabili e che in Italia la giustizia esiste”.