Nella baraccopoli della vergogna dove vivono i nuovi schiavi. “Ma vogliamo rimanere qui”

La Stampa

Mamadou Konate e Nouhou Doumbia. Sono i nomi dei due ragazzi, 33 e 36 anni, morti nel rogo del Gran
Ghetto, lembo di inferno in terra italiana, una macchia di vergogna nelle verdi campagne del foggiano, tra
San Severo e Rignano Garganico. Mamadou e Nouhou, è importante ricordare i loro nomi, perché non si
pensi che siano cose come qui purtroppo sono stati trattati dalla mafia del caporalato, con la complicità di chi
per troppo tempo si è girato dall’altra parte. Mamadou e Nouhou vivevano qui, dove la cenere brucia ancora
e dove le ruspe stanno cancellando questo ghetto di sopraffazione e dolore, insieme a centinaia di altri
compagni che si erano rifiutati due giorni fa di obbedire al decreto di sgombero, seguendo invece gli ordini
dei «capi neri», i «capò», a loro volta al soldo dei caporali italiani. Konate è stato trovato disteso su una
brandina, carbonizzato. L’altro era vicino all’uscita della baracca, ma il fuoco lo ha avvolto senza lasciare
scampo.
Una storia di sfruttamento, di dignità negata, di omertà e connivenze che le baracche con i tetti di lamiera e i
muri di compensato e cartone raccontano. Vengono giù come birilli sotto le ruspe che oggi, qui, non evocano
gli anatemi populisti di Salvini, ma la speranza della liberazione.
Incendio doloso? Dalla Procura di Foggia smentiscono questa ipotesi. S’indaga per omicidio e incendio
colposo a carico di ignoti. L’ipotesi al vaglio del procuratore Leonardo Leone de Castris e del pm Alessandra
Fini è che le fiamme siano divampate da una stufa o da un fornello che i migranti lasciano accesi la notte. Le
bombole del gas, sparse un po’ ovunque, avrebbero fatto il resto. Leggi…

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