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Lavoratori africani reclusi o venduti dai trafficanti: «Vogliamo tornare a casa»

«Venite a tirarci fuori, vogliamo tornare a casa, siamo qui a Zawiya, stiamo morendo ogni giorno. Oggi ne sono morti due, siamo rinchiusi in questa prigione e usati come schiavi a lavorare». È un grido di dolore, l’appello rivolto attraverso un video al governo nigeriano, alle Nazioni Unite e all’Europa, fatto girare tramite Whatsapp da un gruppo di nigeriani, imprigionati in un luogo di detenzione nella cittadina situata nella costa nord-occidentale della Libia. Una richiesta di aiuto per uscire dall’inferno libico e tornare nei propri Paesi d’origine, cui si aggiungono centinaia di messaggi e commenti di giovani migranti pubblicati negli ultimi due mesi sulla pagina Facebook del documentario Reserve slaves (Schiavi di riserva), creata dal regista italiano Michelangelo Severgnini.

Ragazzi e ragazze, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, che sopravvivono nei quartieri ghetto di Tripoli, Khomis, Sorman, Zuwara, dove si rintanano i migranti di colore, molti dei quali in Libia erano arrivati anni fa per lavorare, costretti ora a sfuggire alle milizie locali che gestiscono le prigioni della zona.

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