LA REPUBBLICA

CRISTOFORO SPINELLA

A CASSIBILE c’è Adrian che raccoglie pomodori per poco più di un euro all’ora. Nel supermercato di Palermo dove è stata assunta con un part-time, Francesca lavora anche dieci ore al giorno. Nei cantieri di Trapani, Salvo che faceva il manovale continua a farlo anche se non ha più un contratto.

I nomi sono tutti di fantasia, perché la paura che li spinge a dire sì li fa anche tacere. «Se non hai alternative, devi accettare quello che ti capita», raccontano semplicemente. «Le denunce arrivano solo quando il rapporto di lavoro finisce», si giustificano i sindacati, che possono osservare ma non intervenire. Sono soli e tanti.

Anzi, tantissimi. Fino a serrare le fila dell’esercito più numeroso e più debole della Sicilia, quello dei lavoratori in neroe sfruttati. Più di centomila invisibili che sono ovunque e mandano avanti un’economia drogata che negli anni della crisi si confonde sempre di più con quella ufficiale. Solo a Palermo, il comando provinciale della Guardia di Finanza ha registrato nel 2012 un aumento annuale delle imprese “illegali” del 65 per cento.

L’EDILIZIA Nel settore che più di tutti ha pagato la recessione, una fetta dei 60 mila posti di lavoro lasciati per strada tra il 2008 e il 2012 è scomparsa solo dagli elenchi delle casse edilie dell’Inps. Centinaia di lavoratori ufficialmente licenziati hanno continuato a lavorare nei cantieri, senza tutele né diritti. Il ricatto della crisi ha ingrossato una platea di manovali in nero che secondo le stime dei sindacati in Sicilia contava già almeno 30 mila persone. «Ci sono alcuni indicatori che ci dicono chiaramente che la perdita dei posti ha coinciso con un aumento del lavoro nero – spiega Franco Tarantino, segretario regionale della Fillea Cgil – Non c’è proporzione tra il calo nel numero degli addettie quello delle ore lavorate: è una prova della recrudescenza del lavoro nero». Le stime su un sistema basato sull’illegalità devono far leva su dai come questi. Così, se la percentuale di chi lavora senza contratto era calcolata al 30 per cento prima dell’esplosione della crisi, oggi si aggira intorno al 50 in tutta la filiera delle costruzioni. Numeri che restano però impossibili da controllare: «Non ci sono strumenti di contrasto: mancano gli ispettori del lavoro,e anche i nuclei dei carabinieri che indagavano su questo non funzionano più dopo i tagli nella finanziaria – denuncia Tarantino – È la prova di quanto la Regione si preoccupa di questa piaga».

L’AGRICOLTURA Nei campi siciliani in cui si raccolgono alcuni degli ortaggi e dei frutti più rinomati, ci sono più di 35 mila lavoratori in nero. Anche qui, per cogliere la misura dello sfruttamento basta guardare ai dati ufficiali. In un settore in cui si contano 150mila braccianti agricoli, sono 110 mila quelli che raggiungono il minimo di 51 giornate lavorative annuali che garantiscono le coperture assistenziali e previdenziali. Gli altri, invece, ufficialmente non lavorano neppure quattro giorni al mese. «È lì che si annida il nero», suggerisce Salvatore Tripi, segretario regionale della Flai Cgil. Per lo più sono migranti provenienti dall’Africa subsahariana o dall’est Europa, vittime di sfruttamento selvaggio. Come i romeni individuati nel siracusano qualche mese fa: ciascuno di loro raccoglieva pomodori, melanzane e zucchine per dodici ore al giorno, guadagnando non più di 15 euro a fronte di una paga “legale” di 52 euro per la metà delle ore. Ma c’è persino chi sta peggio: sono i 20 mila invisibili senza permesso di soggiorno e quindi ancor più ricattabili, spesso ridotti in condizioni di vera e propria schiavitù. «Ma se consideriamo anche il grigio, cioè quelli che lavorano 5 giorni a settimana ma ne dichiarano 2, arriviamo a più del 40 per cento degli addetti – spiega Tripi – Bisogna creare un nuovo sistema per controllare il reclutamento».

IL TERZIARIO A quasi trent’anni Lucia è diventata mamma da poco. È per questo che ha accettato di lavorare in un supermercato dieci ore al giorno anche se il suo contratto part-time ne prevederebbe la metà: «Mio marito ha perso il lavoro. Cosa potevo fare?». Un ricatto come quello subito dai suoi colleghi che, nonostante un contratto regolare, sono costretti a pagarsi i contributi da soli; o da quelli che devono restituire al datore di lavoro un terzo dei 900 euro che guadagnano ogni mese.

Un inganno calcolato: i contratti sotto i mille euro sono sempre più diffusi, soprattutto nella ristorazione, perché permettono di evitare la tracciabilità bancaria. «La grande distribuzione si basa per l’80 per cento su contratti part-time, che lasciano spazio allo sfruttamento», Monica Genovese, segretario regionale della Filcams Cgil. Un regno del lavoro grigio, quello del commercio, che si aggiunge al nero, stimato almeno al 30 per cento in tutto il terziario.

Un fenomeno particolarmente forte nel turismo, dove il ricorso al lavoro a chiamata e i pagamenti “fuori busta” alimentano questa zona d’ombra: i lavoratori in nero, spesso stagionali, sono oltre 30 mila.

L’universo più compromesso – anche se numericamente più piccolo – è quello sotterraneo dei call center. Un verminaio di contratti beffa e progetti truffa che vale almeno la metà della faccia pulita del settore: se gli impiegati ufficiali, diretti o indiretti, sono circa diecimila, oltre 5 mila sono quelli che lavorano senza tutela, spesso in garage o sottoscala.

Un sistema che fa leva anche sulla concorrenza al ribasso dei call center legali, dove i contratti a progetto fanno guadagnare poco più dei due euro all’ora scoperti ieri dalla Finanza. Sono le attività definite outbound, cioè quelle di chi chiama direttamente il cliente per vendere prodotti, che finiscono nelle mani di imprenditori senza scrupoli sfruttando le catene dei subappalti.

 

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