La Gazzetta del Sud

Francesco Tiziano

Operazione dei carabinieri nelle campagne di Rosarno. Arrestate quattro persone: tre imprenditori agricoli e un “caporale” del Burkina Faso. Gli extracomunitari, spesso clandestini, percepivano 50 centesimi per ogni cassetta di arance raccolte.

Sfruttati come fossero schiavi. Il destino aveva riservato una vita da inferno per una dozzina di africani del Burkina Faso, costretti a lavorare in condizioni disumane nelle campagne di Rosarno e San Ferdinando. Giovane età, fisico massiccio e forza di volontà senza limiti: lavoravano anche 13/14 ore al giorno, per una ventina di euro, i migranti condannati a lavorare nella Piana. Per loro niente riposi, né assicurazione o assistenza previdenziale. Una dozzina di extracomunitari, una metà dei quali clandestini, erano finiti nelle grinfie di una banda senza scrupoli. Tre reggini e un “caporale” anche lui del Burkina Faso. Nome in codice “Men at work” (“Uomini al lavoro”), l’operazione messa a segno ieri è il frutto di un lavoro sinergico tra i carabinieri di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando. Un’indagine da manuale, avviata nel mese di gennaio, in una terra difficile ed ostile come può essere la provincia di Reggio.

LE INDAGINI. «Venivano modificati i furgoncini per trasportare il maggiore numero possibile di migranti. Addirittura smontavano i sedili per renderli più capienti. Il caporale sfruttava lo stato di clandestinità di alcuni migranti che hanno collaborato per fare luce sullo sfruttamento»: ad illustrare i dettagli dell’operazione sono stati in conferenza stampa il procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo, il comandante provinciale dei carabinieri Lorenzo Falferi, il colonnello Carlo Pieroni, il capitano Francesco Cinnirella e il tenente Giuseppe Anobile. Sfruttati senza limiti i disperati in arrivo dall’Africa. Una cassetta di mandarini gli veniva retribuita a un euro, una di arance a 50 centesimi: in una giornata potevano racimolare dai 20 ai 22 euro, tolto il “pizzo” di 3 euro al giorno che ogni lavoratore doveva versare nelle tasche del caporale. È uno scenario drammatico quello descritto dal gip di Palmi: «L’agire degli indagati appare di gravità tale da far presumere sussistente un attuale e concreto pericolo di reiterazione criminosa: ed invero, se non adeguatamente arginati nei loro movimenti, i soggetti potrebbero continuare o tornare a porre in essere condotte antigiuridiche della stessa indole di quelle per le quali si procede».

IL “CAPORALE”. Lo chiamavano “padrone”, era il “caporale”. Anche Alphonse Maro era africano del Burkina Faso come i disperati condannati a lavorare fino allo sfinimento per non morire di fame e per liberarsi agli orrori della terra natia. Un aguzzino che non lasciava scampo a chi sceglieva una vita al di fuori dei circuiti dell’illegalità. Si faceva pagare una “mazzetta” come i cravattari della peggiore specie per il solo trasferimento dalla tendopoli di San Ferdinando dove vivevano alle campagne della servitù «anche se arrivavano sul posto di lavoro in bici o con mezzi di fortuna ». Il suo ruolo era quello di asfissiare i connazionali: li costringeva a vivere nella miseria, aggrappati alla speranza di un futuro migliore con venti euro in tasca all’imbrunire di ogni giornata. Alphonse Mare (40 anni) e i tre compari imprenditori agricoli, Rocco (56 anni di Gioia Tauro) e Salvatore Gulluni (37 anni di Gioia) e Gennaro Paolillo (29 anni di Gioia), che avrebbero utilizzato la manodopera fornitagli dal “caporale”, risponderanno di violazione della legge sull’immigrazione e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

LA NUOVA LEGGE. «Grazie alla modifica della legge, inasprita proprio all’indomani della rivolta di Rosarno del 2010, gli indagati non solo rischiano una condanna che potrebbe variare tra i 5 e gli 8 anni di reclusione ma soprattutto si ritrovano con le aziende sequestrate. Come dire: oggi questo tipo di attività illecita oltre che moralmente deprecabile è anche antieconomica » hanno spiegato all’unisono gli inquirenti. Ed infatti contestualmente alle misure cautelari i carabinieri hanno sequestrato beni per 500mila euro. I sigilli sono stati messi a tre aziende e tre mezzi che venivano utilizzati per il trasporto degli immigrati irregolari. Un monito la chiosa finale del procuratore Creazzo: «Se è vero che si è registrata una ripresa del vecchio metodo del caporalato, è altrettanto vero che non solo non abbiamo mai abbassato la guardia ma rimarrà costantemente alta ».

 

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