Le donne vivevano in uno stato di vera e propria sottomissione
ROMA – Nel corso della mattinata gli Agenti della Squadra Mobile della Questura di Roma hanno eseguito 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal Gip del Tribunale di Roma nei confronti di altrettanti cittadini rumeni responsabili di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione.
Il sodalizio criminale, operante da diversi anni e radicato nel territorio romano, era composto da cittadini rumeni che gravitavano intorno al campo nomadi di via dei Campi Sportivi, vicino alla riva del fiume Aniene. Le vittime, tutte giovani donne di nazionalità rumena, venivano costrette dai loro stessi connazionali, ad alcuni legati anche da vincoli affettivi, a prostituirsi durante il giorno lungo le strade consolari della Cassia bis e della Salaria.
Le donne in uno stato di vera e propria sottomissione erano sottoposte a continui maltrattamenti e minacce. È stata la denuncia di una di esse, che è riuscita a trovare il coraggio di raccontare quanto le stava accadendo, a far scattare le indagini.
La giovane, costretta a prostituirsi, era stata picchiata e minacciata di morte in diverse occasioni anche nel caso in cui avesse guadagnato poco nel corso della sua giornata lavorativa.
Ogni settimana le vittime, condizionate dall’autorizzazione da parte degli sfruttatori per poter svolgere l’attività di meretricio nelle aree considerate di loro «proprietà», dovevano versargli una cifra variabile compresa tra i 200 e 300 euro.
I soldi, raccolti dai loro protettori, venivano poi versati direttamente nelle mani del «capo famiglia» M.I., un rumeno di 44 anni o del figlio M.L.I., di 26 anni. A loro volta, i protettori che vigilavano sull’attività delle giovani donne, avevano la possibilità di gestire anch’essi una o più ragazze, solo dopo aver ricevuto «l’autorizzazione» dalla «famiglia» e dopo aver corrisposto il pagamento di un «canone» precedentemente pattuito.
Le indagini degli investigatori, hanno permesso di accertare il vincolo associativo che legava i componenti della famiglia, con i singoli protettori, evidenziando per ognuno il proprio peculiare ruolo. Al vertice dell’organizzazione, il capo famiglia che, con il figlio stabiliva le «tariffe», concedeva i «permessi» e «assegnava i posti».
Alla moglie di M.I., era invece riservata l’attività di «reclutamento» delle ragazze direttamente dal paese di origine. I singoli protettori invece avevano sia il ruolo di organizzatori del sodalizio criminale con il compito di sorvegliare le zone e il rispetto degli orari da parte delle ragazze che quello di sfruttatori delle singole vittime.