L’Espresso
La Società: è il nome della quarta mafia, dimenticata. Che controlla tutto in modo feroce. Nella terra del premier Conte
Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini e gli acini grappoli, ormai pronti alla vendemmia. Le parole di John Steinbeck, scritte nell’immortale romanzo del 1939 sui braccianti immigrati in California, riaffiorano anche quest’anno dalla sterminata piana agricola di Foggia. È agosto e come ogni estate è tempo di pellegrinaggi. Arriva il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che qui, nella provincia foggiana dell’Altra Gomorra, la quarta mafia, è nato e cresciuto. Lo segue il suo vice Matteo Salvini, ministro dell’Interno. Parole indignate, foto di circostanza in prefettura. Due incidenti stradali hanno ucciso in poche ore sedici operai della terra: quattro sulla provinciale tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, dodici sulla statale 16 vicino a Lesina. La geografia del caporalato è sempre la stessa. E anche i riti istituzionali. Poi tutti a casa. Vedremo tra dodici mesi chi tornerà. E cosa farà nel frattempo il governo del cambiamento, che solo poche settimane fa ha insultato gli schiavi delle campagne italiane, definendo la loro sofferenza una pacchia.
La società da queste parti non è soltanto una comunità di persone sottomesse a un modello di vita spietato. La “Società foggiana” è anche il nome che la quarta mafia si è data e che quel modello impone e domina. L’Altra Gomorra è un’organizzazione ermetica, economica e militare, molto poco raccontata. «In taluni contesti il radicamento socio-culturale del sistema mafioso è così forte da produrre una generalizzata e assoluta omertà che, talvolta, trasmoda nella connivenza se non addirittura nel consenso», scrive il Consiglio superiore della magistratura nella sua analisi sulla situazione a Foggia deliberata il 18 ottobre 2017: «A riprova di questo, deve evidenziarsi che dal 2007 non si hanno collaboratori di giustizia interni ai circuiti associativi. Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, su circa trecento delitti di sangue ascrivibili al contesto mafioso foggiano, l’80 per cento sono ancora irrisolti». L’ultima strage è di un anno fa: il 9 agosto nei campi di San Marco in Lamis i colpi calibro 7,62 di un Kalashnikov e calibro 12 di un fucile da caccia uccidono il boss del Gargano Mario Luciano Romito, 50 anni, suo cognato che gli faceva da autista, Matteo De Palma, 44 anni, e due agricoltori, Luigi e Aurelio Luciani, 47 e 43 anni. I fratelli Luciani non c’entravano nulla con gli affari di Romito: li hanno assassinati solo perché, incolpevoli testimoni, passavano di lì.
Ecco, se si vuole davvero salvare la provincia che produce gran parte degli alimenti per le nostre tavole e liberare la sua gente dall’oppressione dell’Altra Gomorra bisogna continuare da lì: da quel venti per cento di casi invece risolti, di sentenze importanti passate in giudicato, di relazioni e patti tra batterie di killer e famiglie pazientemente scoperti grazie alla collaborazione tra la Procura del capoluogo e il pool della Procura distrettuale antimafia di Bari. Collaborazione che ha trasformato in processi il faticoso lavoro di carabinieri, polizia e guardia di finanza. Altrimenti vince l’omertà. E quella nasconde tutto, non solo i crimini di mafia.
Lungo la statale 16 da Cerignola a San Severo maturano i grappoli sempre più vicini alla vendemmia. Schiene nere di polvere e sudore si piegano da ore sulle distese basse di pomodori. A ridosso dei campi, la fila di Tir attende che i cassoni siano pieni, i camionisti dormono al fresco climatizzato delle loro cabine e i furgoni dei caporali cuociono al sole. Dai rottami dell’incidente di Lesina esce la globalizzazione della
manodopera: targa bulgara, autista marocchino, vittime ventenni dell’Africa subsahariana, raccolto italiano, otto posti a sedere, quattordici passeggeri a bordo, due sopravvissuti. Salvini può anche urlare «prima gli italiani»: ma nei paesi svuotati dal crollo demografico, dall’emigrazione e dalla legittima ambizione di non sporcarsi più le mani, chi lavorerebbe nei campi?
L’andata e il ritorno sono i momenti più pericolosi della giornata. Nell’inchiesta sotto copertura con cui L’Espresso aveva raccontato dal di dentro la schiavitù dei nuovi braccianti, eravamo più volte saliti su uno di quei mezzi. È il resoconto di quanto accade a migliaia di lavoratori ogni giorno, prima dell’alba e dopo il tramonto. Si parte in nove su una Volkswagen Golf: «Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto il caporale al volante si prenderà quaranta euro dalle nostre paghe. La Golf stracarica corre e sbanda sulla strada stretta dove due auto si affiancano a malapena. Il contachilometri segna cento all’ora. Una follia». Stornara, provincia di Foggia, agosto 2006.
Come per ogni traffico illegale, il trasporto dei braccianti è il tratto scoperto da cui qualunque buon investigatore non farebbe fatica a risalire alla rete che li sfrutta. Ma d’estate i ministeri riducono al minimo il loro personale. E nelle altre stagioni foggiane i campi non hanno bisogno di molta manodopera. Aboubakar Soumahoro, il sindacalista di base ivoriano che con la sua voce riempie il vuoto confederale, invita a Foggia il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, perché si renda conto di persona. Il ministro risponde promettendo un concorso straordinario per assumere nuovi ispettori. Servirebbero, eccome. Purché, per la loro incolumità, non siano della zona.
In mezzo a tanti funzionari integerrimi e ai risultati ottenuti, l’analisi del Consiglio superiore della magistratura denuncia una situazione spaventosa: «Si legge nella relazione trasmessa dal Procuratore di Bari che, in alcune indagini, è stato accertato che l’organizzazione criminale, effettuando una preventiva selezione tra le giovani donne ridotte in schiavitù, individua quelle da destinare alla prostituzione, con il ruolo precipuo di adescare i “pubblici ufficiali” cui rendere prestazioni sessuali non retribuite economicamente, ma con la prestazione di favori, in particolare l’omissione di controlli nei campi in cui si attua lo sfruttamento lavorativo dei braccianti».